imprese

Senza cultura di impresa, il fallimento è l’unico sbocco per le imprese in crisi. L’Italia ha un problema culturale, ancor prima che normativo.

Dalle procedure per la ricostruzione post terremoto messe a punto dagli ultimi due governi del Pd, al decreto dignità caro a Giggino Di Maio, alla riforma del Codice della crisi di impresa e dell’insolvenza varata dal ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, assistiamo al proliferare di norme vessatorie ispirate non dalla cultura d’impresa, ma dalla cultura del sospetto nei confronti degli imprenditori.

Chi fa impresa, e sotto sotto anche i cittadini qualsiasi, sono colpevoli per definizione.

Anziché liberarli da vincoli burocratici e normativi, responsabilizzandoli e lasciando che sprigionino i loro “spiriti animali”, li si incatena alle norme e li si assoggetta a quel “diritto penale totale” che – secondo il giurista Filippo Sgubbi – ha ormai fatto della norma cultura giuridica l’anticamera dello Stato etico.

Il fatto che l’amministratore di un’azienda sia personalmente responsabile delle proprie scelte manageriali e possa di conseguenza vendersi aggredire il patrimonio (la casa!) è una stortura che induce alla paralisi gestionale: se non faccio, non sbaglio. Esattamente quel che accade in molti ministeri e moltissimi Comuni.

Queste alcune delle evidenze emerse stamattina durante la presentazione in Senato dell’importante libro scritto dalla presidente dell’Ordine dei commercialisti di Milano, Marcella Caradonna, e da Massimiliano Castagna. Il titolo è tecnico (La crisi di impresa e gli strumenti per il suo risanamento), il problema è politico. Ce ne occuperemo.

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