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Ogni volta che passo da via Lovanio, una traversina di via Salaria all’altezza di Villa Ada, mi fermo sempre un attimo a contemplare la scuola elementare Principessa Mafalda. Perché, forse in pochi lo ricordano, qui si è compiuto uno dei passaggi più significativi della nostra Repubblica democratica. Perché in questa scuola il Re Umberto II ha votato per il referendum istituzionale del 2 giugno 1946.

Quel voto è stato l’emblema del passaggio istituzionale. La legge è uguale per tutti e la sovranità appartiene al popolo. I cittadini sono tutti uguali, al punto che anche il Re vota, come tutti gli altri. Su quella base è stata scritta la Costituzione repubblicana, fondata sulla democrazia parlamentare.

Mi sono voluto dilungare su come è nata la nostra Repubblica per ricordare quanto sia importante la centralità del Parlamento.

Non a caso la Costituzione prevede, soprattutto per la limitazione dei diritti fondamentali, una serie di riserve di legge, a partire dalla stessa libertà personale, di cui all’art. 13 della Costituzione, che può essere limitata “nei soli casi e modi previsti dalla legge”.

Nell’ottica della Repubblica parlamentare, le riserve di legge non sono un formalismo. Rappresentano la garanzia che sui profili più delicati sia il Parlamento ad intervenire, in maniera da garantire il pluralismo del dibattito e la trasparenza delle decisioni.

Infatti il Parlamento lavora con sedute pubbliche e rende pubblici i suoi lavori, in maniera che si possano cogliere i passaggi e le sfumature che hanno portato a una determinata disciplina. Inoltre, il Parlamento è rappresentativo e quindi consente sempre dibattiti che coinvolgono oltre la maggioranza anche le opposizioni.

Queste sono le garanzie che rendono effettiva la partecipazione dei cittadini alla formazione della volontà democratica. E per questa ragione il Parlamento, non a caso, è disciplinato al primo posto fra i poteri della organizzazione costituzionale, nella tipografia della Carta fondamentale.

In questi due mesi di emergenza Coronavirus, invece il Parlamento è stato tenuto ai margini delle decisioni fondamentali.

Le principali limitazioni alle libertà dei cittadini sono state assunte con DPCM, cioè atti amministrativi dell’esecutivo, e con ordinanze di governatori e sindaci. È sì vero che poi tali DPCM sono stato formalmente coperti, in termini di legittimazione costituzionale, dall’art. 3 del decreto-legge n. 6/2020, e poi dall’art. 1, co. 1, del decreto-legge n. 19/2020. Tuttavia, appare evidente che si tratta di una attribuzione di potere in bianco, cioè senza che il Parlamento abbia una effettiva capacità decisionale.

Del resto, il nostro Parlamento, a differenza di molti Parlamenti europei, è stato impegnato per settimane a valutare come potesse essere disciplinata una attività in forma digitale e si è spesso riunito con rappresentanze solo parziali, che sono intervenute soprattutto per lavorare sulla pioggia di micro-emendamenti nei decreti-legge in conversione.

Come ha ricordato nella sua relazione annuale la Presidente della Corte costituzionale, “nella Carta costituzionale non si rinvengono clausole di sospensione dei diritti fondamentali da attivarsi nei tempi eccezionali, né previsioni che in tempi di crisi consentano alterazioni nell’assetto dei poteri”. Questo è il punto.

Anche le situazioni di emergenza vanno gestite assicurando il rispetto dell’impianto costituzionale, nella centralità del Parlamento e nella corretta applicazione delle riserve di legge in tema di diritti.

È quello che va assicurato nelle prossime settimane, in maniera da poter gestire in maniera costituzionalmente corretta la Fase 2, secondo le indicazioni e le linee guida del Parlamento, a cominciare dalla disciplina della app sul tracciamento dei nostri spostamenti.

Senza gli istituti fondamentali della democrazia parlamentare, è come se si tornasse indietro di oltre 150 anni, quando non eravamo cittadini, ma sudditi, in uno Stato di polizia.

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