Confindustria Bonomi Conte Stati Generali

Si può governare una crisi economica epocale contro Confindustria? Dopo due anni di eclettismo politico nulla sembra più sorprenderci, ma quel che accade è clamoroso.

È clamoroso che Giuseppe Conte non abbia neanche provato a concertare con il presidente di Confindustria Carlo Bonomi una strategia per affrontare con obiettivi comuni la crisi, una crisi tanto strutturale quanto congiunturale, più complessa di sempre. Il conflitto è aperto: governo contro industriali, industriali contro governo.

In Germania non è così. In Francia non è così. In Italia non è stato sempre così. Nel pieno della crisi economica e di sistema dei primi anni Novanta, il governo guidato da un non politico mise attorno a un tavolo industriali e sindacalisti e con loro sottoscrisse un “Patto per il Paese”. C’erano le firme di Ciampi, Abete, Trentin, D’Antoni, Larizza. Analogo spirito di unità nazionale regnava tra imprese e governo negli anni della ricostruzione post bellica.

Bei tempi, quelli. Tempi in cui ciascuno si assumeva le proprie responsabilità, la Politica aveva una visione e a nessuno sarebbe venuto in mente di confondere Palazzo Chigi con Villa Pamphilj.

Non è questione di interesse economico, è questione di interesse politico. È interesse del governo traghettare il Paese fuori dalla crisi nel minor tempo e col minor danno possibile: obiettivo realistico solo se tutti remano e se tutti remano nella medesima direzione. Quando ciò non accade la colpa è del comandante. Vuoi perché non sa dove dirigere la prua, vuoi perché non è autorevole agli occhi di ufficiali ed equipaggio, vuoi perché manca di esperienza nella navigazione… Ma la colpa, se la nave non va, è sempre del comandante.

No, non è sensato pensare di governare una crisi economica epocale contro Confindustria.

Contro quello che Luigi Einaudi definì il simbolo “dell’Italia che lavora e che produce”. L’Italia di chi fa impresa. L’Italia più colpita, l’Italia più concreta. Quella concretezza di cui oggi apprezziamo il valore.

Nei primi anni Duemila, l’Economist ci definiva una “anomalia” perché avevamo troppi occupati nell’industria. Abbiamo poi scoperto quanto vulnerabili possano essere le economie iper finanziarizzate e quanto strategico sia invece disporre di un tessuto industriale “reale” organizzato in distretti e naturalmente proiettato all’export. È la cima che tiene ancorata un’economia nazionale al resto del mondo. È un elemento di stabilità, una sicurezza in tempo di crisi, un naturale fattore di occupazione e dunque un prezioso balsamo sociale. 

È da qui che bisogna ripartire. Bisogna ripartire dall’impresa e da un terziario avanzato e creativo, attivamente sostenuto da un sistema pubblico-privato centrato su innovazione e ricerca. Occorre ripensare, capitalizzare, aggregare, finanziare, semplificare, detassare, digitalizzare, proteggere… Non intervenendo direttamente, però, ma creando le condizioni perché il processo si compia. Occorre uno Stato regolatore, non uno Stato gestore.

Obiettivo utopico finché a palazzo Chigi regna ma non governa un avvocato che ritiene di poter affrontare la crisi economica e sociale più complessa di sempre senza un’idea e pervicacemente contro “l’Italia che lavora e che produce”.

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